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Testimonianza di un rifugiato siriano vittima di un’operazione illegale di respingimento in Turchia

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potami-sinora-apagoreumeni-zoni-280x250Il giornale Ef.Syn. pubblica la scioccante testimonianza di un rifugiato siriano respinto illegalmente  in Turchia. Si tratta di un trentaquattrenne, padre di due figli, che faceva parte del gruppo dei 150 rifugiati siriani di cui si sono perse le tracce a Orestiada (città della Grecia del nord, regione Evros, n.d.t) giovedì 12 novembre. Come abbiamo scritto basandoci su testimonianze di persone che avevano parlato con loro, circa la metà dei rifugiati del gruppo erano stati respinti con la forza.

Oggi il siriano trentaquattrenne, che abbiamo raggiunto telefonicamente, rivela cosa è successo quella sera. Secondo tutte le informazioni e le denunce di organizzazioni e organismi internazionali, operazioni illegali di respingimento avvengono da anni e quasi quotidianamente sia sui confini terrestri sul fiume Evros che su quelli marini nell’Egeo.

LA TESTIMONIANZA 

Sono stato respinto dalla Grecia tre volte, la prima cinque mesi fa. Abbiamo cercato di arrivare via mare; io, mia moglie e i miei due figli. La polizia è arrivata in barca, ci hanno accompagnato fino alla parte turca e hanno perforato lo scafo della nostra imbarcazione. Con noi c’erano persone malate e bambini. La guardia costiera turca ci ha trovato e ci ha aiutato.

La seconda volta è stata il 5 novembre. Abbiamo attraversato i confini sul fiume Evros e abbiamo iniziato a camminare. Passavano delle macchine e alcuni ci hanno dato da mangiare. Avremo camminato per 10km quando è arrivata la polizia. Erano le dieci di sera. “Siamo venuti per fuggire dalla guerra” gli dicevamo noi. “Non c’è niente per voi qui, dovete andare via” ci dicevano loro. Ci hanno caricato su un grande furgone, cinquanta persone ammassate una sopra l’altra. Gridavamo, imploravamo aiuto. Con noi c’erano donne, ragazzi e bambini. Ci hanno fatto salire su alcune macchine, hanno guidato fino al fiume e ci hanno lasciati chiusi dentro per cinque, sei ore. Ci hanno fatto uscire, hanno preso i nostri zaini e i cellulari e li hanno buttati nel fiume. Pioveva e aspettavamo senza riparo sotto la pioggia. Urlavamo. Non sapevamo dove ci avrebbero portati e cosa ci sarebbe successo. Intorno alle due – tre di notte ci hanno messo su una barca e ci hanno mandato indietro. Quando si è fatto di nuovo giorno, eravamo in Turchia.

La terza volta è stata il 12 novembre. Eravamo molti, 150 persone, tutti provenienti dalla Siria. Insieme a noi c’erano alcune donne, ventidue ragazzi e sei bambini di meno di un anno. Abbiamo attraversato i confini e abbiamo camminato lungo la strada. Chiedevamo a chiunque incontravamo dove fosse la polizia per consegnarci. Siamo arrivati al paese di Pranghì (a sud di Orestiada, vicino alla città di Didymoticho, n.d.t). Uno di noi parlava bene il greco e ci leggeva i cartelli. Molti di noi si sono accampati nel cortile di una chiesa, altri sono rimasti fuori dal paese, vicino al fiume. Chiedevamo aiuto, ma non è arrivato nessuno. Forse avevano paura di noi. Due o tre ore dopo è arrivata la polizia, e allora sono apparsi alcuni paesani. Gli agenti di polizia erano tanti, una cinquantina. Ci hanno chiesto “Cosa volete?”. Abbiamo risposto “Andare al centro di accoglienza”. “Va bene” hanno detto, “vi ci porteremo”. Ma ci hanno mentito. 

Insieme a noi c’era una famiglia, una coppia con due figlie. L’uomo ha detto agli agenti: “aiutateci, ho la mia famiglia con me”. Giuro su Dio, non ho mai visto in vita mia una persona essere picchiata così tanto. Lo hanno buttato per terra, gli schiacciavano la testa, lo prendevano a calci, lo picchiavano con il calcio della pistola. Questa scena è durata mezz’ora, dopo hanno cominciato prendere a calci la donna. Poi hanno preso dei cavi e li hanno picchiati con quelli. Giuro, erano poliziotti greci. Dopo hanno cominciato con noi. Ci hanno picchiato uno per uno, finché non sono arrivate le macchine.

Abbiamo chiesto di nuovo: “ci porterete al campo?”. Hanno risposto “sì, salite”. Hanno chiuso le porte e i finestrini, non potevamo respirare. Siamo arrivati al confine. Di fronte a noi, dall’altra parte, c’era il posto di guardia turco. Arrivavano sempre più poliziotti, fino ad essere circa sessanta – settanta. Alcuni erano vestiti in borghese, altri portavano delle divise blu scuro. Le loro facce erano coperte. Parlavano greco, inglese e tedesco. Avevano in mano delle aste. Abbiamo capito cosa ci aspettava. Una parte di loro guardava noi, un’altra verso i soldati turchi, per vedere quando sarebbero andati via per poterci rimandare in Turchia; in dodici avevano preso le aste e ci picchiavano. Non facevano caso a dove ci picchiavano – sulle spalle, sulle gambe e direttamente sulla testa.

Poi hanno perquisito i nostri zaini e hanno preso soldi e cellulari. “Ve li restituiremo” dicevano. Avevo nascosto bene nello zaino 300 euro per non bagnarli. Li hanno trovati e li hanno presi. Hanno preso il mio passaporto e il mio cellulare. Poi hanno buttato lo zaino nel fiume. Hanno cominciato a farci salire su una barca, trenta alla volta. A chiunque si rifiutasse puntavano la pistola alla testa e urlavano “Dentro! Dentro!”. Io sono scivolato nel fiume. Non so nuotare. Mi hanno preso i miei e mi hanno tirato su. Gli agenti di polizia stavano là a guardare.

La polizia turca ci ha trovato alle dieci del mattino. Eravamo 134, ci hanno arrestati tutti. Mancavano sedici persone. Tra queste, una famiglia di nove armeni che vivevano in Siria. Tre uomini, tre donne e tre bambini. Nessuno sa cosa gli sia successo. A noi hanno dato buon cibo, acqua e coperte per dormire fino a quando non sono arrivate le macchine per portarci a Istanbul.

Ieri sono riuscito ad alzarmi e a camminare. Oggi, una settimana dopo, mi fa ancora male la schiena . Ma riprenderò il viaggio. Non ho altra scelta. Mi lascio dietro una situazione gravissima. Voglio mandare un messaggio. Voglio che arrivi alla gente: per quanto tempo ancora saremo sacrificati? Per quanto tempo ancora verremo guardati da tutti con indifferenza? Basta versare ingiustamente il sangue dei siriani. Non voglio morire, ho trentaquattro anni. Ma ci sono donne, famiglie, bambini. Penso a loro. Il cielo in Siria non è più blu, ma è rosso di sangue. Ed è per questo che prendiamo i nostri figli e facciamo questo viaggio. Non lasciate che le cose peggiorino.

1

* La foto si riferisce al trattamento riservato ad alcuni profughi sull’isola di Farmakònisi nel 2009

Fonte: efsyn.gr

Traduzione di AteneCalling.org (fonte)


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